Flat tax insieme al cuneo fiscale favoriscono i redditi alti

La tassa piatta favorisce gli alti redditi e, insieme al taglio del cuneo fiscale, farà venire meno ingenti risorse, facendoci sprofondare in uno Stato minimo dove non contano di diritti e la Costituzione.

La flat tax, o tassa piatta, come prevista dalla legge di bilancio 2023, oltre a portare a 85.000 euro la soglia di reddito da tassare al 5 o 15% per i professionisti (era 65.000 lo scorso anno), riguarderà, con regole diverse, anche le partite Iva non a regime forfetario con un criterio “incrementale”. Per i redditi di quest’anno sarà possibile applicare la flat tax sul maggiore utile conseguito rispetto al triennio precedente con soglia massima di 40.000 euro.

Per capire meglio forniamo un esempio pratico, come del resto fanno alcuni giornali economici vicini o espressione delle parti datoriali.

Prendiamo un contribuente con reddito di 100.000 euro nel 2023, quindi che supera di 15.000 la soglia di 85.000 euro, tra ricavi e compensi previsti con la nuova legge di bilancio per quest’anno, e di 25.000 quella vigente nel 2022. Si prende in considerazione il reddito più alto dell’ultimo triennio che ammettiamo sia di 80.000 euro; la base imponibile per l’imposta del 15% sarà pari a 16.000 euro (100.000 – 80.000 – 4.000, corrispondenti al 5% di 80.000). Sui 16.000 euro si applicherà la flat tax del 15%, pari a 2.400, euro mentre il restante reddito pari a 84.000 euro sarà tassato con le regole ordinarie. Il risparmio di imposta crescerà quindi in misura proporzionale all’incremento di reddito conseguito. Maggiore incremento di reddito realizza il contribuente, maggiore è il risparmio di imposta.

Prima considerazione: la flat tax si applica agli autonomi e nel corso del tempo è stata innalzata la soglia di reddito dei beneficiari di questa tassazione agevolata, i lavoratori subordinati, che costituiscono la stragrande maggioranza della forza lavoro attiva, avranno invece una tassazione diversa e decisamente meno favorevole: potranno beneficiare, in sostanza, di sconti, in attesa della definizione di nuove regole, solo sui premi di produttività e sugli straordinari effettuati. Sui premi di produttività fino a 3.000 euro, la tassazione è passata dal 10% al 5%. È questo un altro elemento che va in direzione di incentivare, nell’interesse dei datori di lavoro, la parte della retribuzione legata alla produttività, a discapito della retribuzione ordinaria.

Nutriamo seri dubbi sulla legittimità di queste norme ma siamo abituati da tempo a norme anticostituzionali che diventano prassi consolidata con la complicità di quanti dovrebbero invece vigilare sul rispetto dei principi della Carta, fra i quali figura la progressività del sistema fiscale, praticamente distrutto se si tiene di conto della regressività dell’imposizione indiretta. Si porta a compimento il processo iniziato tanti anni or sono con la riduzione del numero delle aliquote e della differenza fra la massima e la minima, cui si aggiunge un variegato sistema di detrazioni a beneficio dei redditi elevati.

Le misure previste a sostegno per i salari introdotte nel 2023 costeranno complessivamente allo Stato 10,4 miliardi, assai meno di quanto ammonterebbero invece gli aumenti salariali adeguati al costo della vita. In questo modo le aziende eviteranno di sottoscrivere accordi con aumenti salariali idonei a salvaguardare il potere d’acquisto.

La flat tax comporterà per le casse dello Stato minori entrate fiscali. Le imprese guadagneranno due volte evitando di pagare dignitosamente i loro dipendenti, senza dover collegare le retribuzioni all’inflazione, e continuando a beneficiare allo stesso tempo di aiuti e sgravi di vario genere.

Detto in altri termini lo Stato ricaverà meno soldi dalle tasse e dovrà trovare il modo di ripianare le mancate entrate, che verosimilmente sarà il consueto: tagli alla spesa sociale.

Teniamo conto che stando ai dati, ancora provvisori, dell’Istat gli aumenti contrattuali dovrebbero superare almeno il 6% solo per recuperare il potere di acquisto perduto nell’anno corrente, una cifra pari a tre volte tanto sarebbe invece necessaria a recuperare quanto ci è stato sottratto negli ultimi 4\5 anni. In Germania quest’anno i sindacati hanno ottenuto aumenti contrattuali attorno all’8% e un altro sei per cento di incremento è previsto a inizio 2024. Il governo Meloni ha invece evitato di finanziare i nuovi contratti della Pubblica Amministrazione, accordando una misera una tantum e ad oggi non si sa se e quando troverà i fondi necessari a sottoscrivere i contratti di lavoro scaduti da quasi due anni per 3,2 milioni di dipendenti pubblici.

Il governo Meloni giudica le norme deliberate una sorta di grande beneficio per la forza-lavoro. Per esempio i lavoratori dipendenti (circa 14 milioni) avranno un incremento dovuto al taglio del cuneo fiscale già introdotto, in misura minore, per il 2022 dal governo Draghi.

Ma questo beneficio non rappresenta un aumento dei salari che avrebbe impatti duraturi e positivi tanto sul reddito quanto sui futuri contributi pensionistici. I tagli dei contributi previdenziali a carico del lavoratore costituiranno ugualmente un minor gettito e anche in questo caso sarà lo Stato a dovere trovare la copertura finanziaria. Siamo di fronte a qualcosa di più di un rischio di trovarci un domani con meno contributi destinati alle pensioni (qualora in futuro dovesse essere stabilizzato il taglio ogni anno si presenterà il dilemma della copertura di spesa scaricata sullo Stato). Con contributi sempre più ridotti il nostro sistema pensionistico, già impoverito, salterà del tutto, a beneficio dei fondi pensioni e della previdenza integrativa.

Le somme necessarie a coprire il minor gettito fiscale potrebbero giungere dalla riduzione delle spese destinate alla sanità e all’istruzione pubblica, una ipotesi tutt’altro che remota visto che già quest’anno i tagli alla sanità ammontano a oltre 5 miliardi di euro e si vocifera di 4 miliardi per il prossimo.

Siamo in presenza di un beneficio fittizio, ancora una volta a pagare è lo Stato anche se in misura assai minore di quanto fa per gli aiuti accordati alle imprese o agli autonomi, ai quali si applica una tassa piatta assai favorevole.

Il taglio del cuneo fiscale per i lavoratori sarà pari a sette punti in caso di retribuzione fino a 25mila euro lordi annui, di sei punti fino a 35mila euro lordi. Queste misure sono presentate come aiuti alla classe media che invece, statistiche alla mano, ha subito una costante erosione del potere di acquisto al pari delle classi sociali meno abbienti che per anni non hanno beneficiato delle detrazioni ad appannaggio dei redditi elevati. E la iniquità del sistema fiscale vecchio e nuovo si palesa ai nostri occhi al netto delle polemiche o delle dichiarazioni di intenti a discapito del welfare.

Se, come crediamo, il governo vorrà mantenere le stesse norme per il 2024 dovranno essere trovate le adeguate coperture anche per l’anno a venire visto che il taglio del cuneo fiscale ad oggi vale solo per il 2023. E il governo Meloni si è mosso sulla stessa strada intrapresa dall’esecutivo Monti, almeno per il cuneo fiscale, che aveva previsto il taglio di tre punti per le retribuzioni fino a 25mila euro e di due punti per quelle fino a 35mila euro), misura adottata nei primi sei mesi del 2023.

La moderazione salariale fatta propria dal governo Draghi è oggi adottata dal governo Meloni con la differenza che l’Esecutivo di destra ha accentuato i tagli del cuneo fiscale ma allo stesso tempo ha scelto una tassazione assai agevolata per gli autonomi incrementando al contempo gli aiuti per le imprese soprattutto in caso di nuove assunzioni e spese per la formazione (che dovrebbero essere a carico invece delle parti datoriali).

Poi ci sono i cosiddetti fringe benefit, i beni e i servizi che il datore di lavoro riconosce ai propri dipendenti o collaboratori in misura alternativa agli aumenti salariali. Si va dai prestiti agevolati all’auto aziendale (!!) fino ai buoni acquisti e anche in questo caso il potenziamento delle misure destinate al welfare aziendale avverrà a discapito di effettivi aumenti salariali e anche in questo caso a guadagnarci saranno sempre e solo le imprese, con una cifra non soggetta ad alcuna imponibilità da tradurre in benefit. In questi scenari anche la sanità e la previdenza integrativa giocheranno un ruolo dirimente a discapito degli investimenti statali a favore di sanità e istruzione pubblica.

E qui entra in gioco la sanità.

Da una parte il pareggio di Bilancio, dall’altra la necessità di non sforare il rapporto tra entrate ed uscite, attraverso piani di spending review, tradottisi in riduzione sistematica della spesa, i 9 anni di blocco della contrattazione nella Pubblica Amministrazione e in gran parte di blocco delle assunzioni. La situazione pandemica è il risultato di scelte scellerate da parte della Ue, dei Governi nazionali e delle Regioni, tutte all’insegna dei tagli.

Dopo un paio di anni di spesa in aumento, dal 2022 la spesa è tornata a decrescere. Dalla pandemia non abbiamo tratto alcun insegnamento tanto che i numeri chiusi per l’accesso alle facoltà sanitarie non sono stati rimossi e investire nella sanità è parso un inutile spreco di risorse, le assunzioni sono state inferiori alle attese e anche alle necessità.

Se si attuerà il taglio ulteriore di 4 miliardi, sarà un’ecatombe, perché per mantenere gli scadenti livelli attuali delle prestazioni sarebbe invece necessario un aumento che tenga conto dell’inflazione. Ancora di più dovrebbe essere aumentata la spesa se si volesse superare almeno in parte le gravi carenze palesate dalla pandemia.

È illogico non accrescere i salari e affidarsi al welfare aziendale, così facendo si mortificano i salari sostituendo gli aumenti con servizi che alla fine depotenziano lo Stato sociale e la sanità pubblica.

Perfino l’ Ocse addebita al perverso rapporto pubblico e privato la ragione della crisi del welfare e della sanità.

A orientare l’operato dei Governi arrivano in soccorso gli studi commissionati da università e fondazioni private che hanno tutto l’interesse a caldeggiare il doppio sistema a discapito del pubblico. Per anni, sempre per contrarre i costi, interi servizi sociali e sanitari sono stati affidati al privato sociale, al terzo settore per finanziare il quale si racconta che la stessa nozione di pubblico va rivista includendo anche il mondo delle cooperative che opera in appalto e subappalto e vive quasi sempre del super sfruttamento dei lavoratori.

Alla sanità pubblica mancano medici e quelli esistenti hanno raddoppiato il numero dei pazienti assicurando loro prestazioni decisamente inferiori al passato, tanto da costringerli a rivolgersi al privato, anzi in molti casi i medici di base operano a stretto contatto con strutture private o del privato sociale indirizzando verso di loro i pazienti per “evitare” le lunghe liste di attesa. Chi se lo può permettere ricorre ormai quasi regolarmente al privato e gli altri devono aspettare a lungo le prestazioni, quando ci sono, a meno che non possano ricorrere al welfare aziendale; una sorta di ritorno alle vecchie mutue.

Le politiche adottate hanno non solo indebolito la sanità pubblica ma è parso logico e conveniente esternalizzare innumerevoli servizi. Agli occhi della cittadinanza il privato è apparso come soluzione del problema quando invece è la causa scatenante con un coacervo di conflitti di interessi che includono anche il sistema delle polizze assicurative in campo sanitario.

Se poi negli accordi di comparto troviamo i sindacati come procacciatori di affari della sanità integrativa si capisce la ragione per la quale siano proprio i sindacati i primi a diffidare del pubblico, al netto della retorica e dei proclami mai seguiti da azioni conseguenti.

Se la popolazione invecchia cresce anche la spesa sanitaria, vale per il pubblico come per i fondi integrativi, da qui la necessità di affidare alla speculazione finanziaria la soluzione del problema che dovrebbe essere invece una sola: rafforzare il pubblico aumentando la spesa per la salute.

Se alla fine lo Stato deve intervenire è bene che lo faccia a tutela del sistema pubblico invece di regalare soldi a strutture private, ai Fondi integrativi e magari alle polizze sanitarie.

I vantaggi dovrebbero essere evidenti a tutti se si investe per un sistema pubblico che alla lunga consentirà alla popolazione di avere dei servizi adeguati alle reali necessità.

Ma accade invece l’esatto contrario: si pensa che regalando sgravi fiscali e contributi al privato si possa fornire risposte al crescente fabbisogno sanitario quando invece si potrebbe rafforzare il settore pubblico conquistando un sistema di cura adeguato alle reali necessità.

Ma torniamo, per concludere le nostre osservazioni, alle norme governative sulla tassazione.

La tassazione agevolata al 5% dei premi di produttività determinerà un ulteriore depotenziamento del contratto nazionale e della sua validità erga omnes e sarà più facile ricorrere ad una nuova politica di gabbie salariali diversificando i salari su base regionale.

Veniamo da anni di politiche atte a rafforzare il secondo livello di contrattazione con deroghe ai contratti nazionali e lo scambio diseguale tra pochi soldi soggetti a tassazione pari al 5% e l’incremento dei ritmi, dei tempi di lavoro e della produttività che portano vantaggi alle parti datoriali. Così come viene eluso il criterio della progressività con una tassazione della quale beneficiano indistintamente i redditi fino a 80 mila euro annui. Anche in questo caso lo si fa con la compartecipazione dei sindacati rappresentativi.

La tassazione irrisoria dei premi di produttività costa allo Stato 222 milioni di euro a fronte di una platea di lavoratrici e lavoratori pari a circa 2 milioni.

Veniamo infine alle norme per il turismo, settore ove il lavoro nero e i contratti precari la fanno da padrone. Nelle settimane scorse abbiamo subito l’ennesimo attacco al decreto dignità a favore del contratto a tempo determinato divenuto ormai la tipologia contrattuale di riferimento del settore.

Per questo anno viene prevista una tassazione agevolata al 5% delle mance versate dai clienti, anche con strumenti di pagamento elettronici, nel limite del 25% del reddito di lavoro dell’addetto beneficiario.

Viene infine previsto un importo esentasse pari al 15% delle retribuzioni lorde per il lavoro notturno e per il lavoro straordinario effettuato nei giorni festivi fino a 40.000 euro di reddito nel 2022, per un costo di circa 55 miliardi, un altro provvedimento a solo vantaggio delle parti datoriali.

La questione fiscale viene impropriamente scissa da quella salariale e dalle dinamiche del welfare. Una decisione studiata ad arte e fin qui avallata anche da quelle parti sociali incapaci di una risposta adeguata all’insegna della conflittualità, della tutela dei salari e del potere di acquisto e in difesa di sanità, previdenza e istruzione pubblica.

Se è vero che a un certo livello la quantità si trasforma in qualità, siamo ormai di fronte non più solamente a una redistribuzione del reddito in senso regressivo, a una sorta di Robin Hood all’incontrario, ma cambia profondamente la natura stessa dello Stato, che diviene lo stato minimo liberale ottocentesco, sostituendo le elargizioni caritatevoli ai diritti sociali, bypassando la Costituzione e le faticose conquiste di decenni di lotte.

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