Ma qui, nel Lodigiano, più che altrove, si diffonde l’ipocrita sensazione della effettiva realizzazione – attraverso il lavoro – del principio fondativo della nostra Repubblica, così come sancito dal primo articolo della nostra Costituzione.
Ma di quale lavoro stiamo parlando?
Buona parte di noi sa benissimo che non esiste “il lavoro ideale” ma esiste un’idea di lavoro che anche i nostri padri costituenti ritennero meritevole di essere attuata: un lavoro che attribuisca “pari dignità sociale” a tutti i lavoratori e che non nuoccia alla loro salute, un lavoro che riesca a concorrere “al progresso materiale o spirituale della società”, pagato con una “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità” del lavoro svolto “e in ogni caso sufficiente ad assicurare”, non soltanto al lavoratore ma anche alla sua famiglia, “un’esistenza libera e dignitosa”, ovviamente senza alcuna distinzione di genere avendo “la donna lavoratrice.. gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”.
Un lavoro stabile, sicuro e giusto, insomma, che consenta, indifferentemente a donne e uomini e alle loro rispettive famiglie, di vivere bene, di migliorare competenze e potenzialità, di ricevere gratificazione dall’attività svolta.
Ecco, questo è il Lavoro con la elle maiuscola!
Ma questa idea di lavoro è ancora lontana dall’essere realizzata.
Le retribuzioni, sia nell’impiego pubblico che in quello privato, sono spesso insufficienti a far fronte ad un costo della vita estremamente elevato ed insostenibile per tante, tantissime famiglie.
Il livello generale dei prezzi- quale media nazionale- è sempre molto elevato mentre i salari sono per lo più stabiliti a livello centrale da Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro che non si attagliano alla specifica realtà locale e non si adeguano alle esigenze particolari proprie delle singole regioni.
Costo della casa, dei servizi e dei beni di consumo spingono molti lavoratori verso la soglia di povertà e determinano uno scivolamento del ceto medio verso il basso.
Li chiamano “working poors”, lavoratori poveri, coloro che, nonostante il loro lavoro, non riescono a stare al passo con la società ed i bisogni che essa determina, restandone esclusi o ai margini, abbandonati molto spesso a rancore, rabbia e disperazione.
Ma anche chi ha uno stipendio di poco superiore al minimo contrattuale, spesso vede evaporare tutto ciò che ha guadagnato in spese fisse per vitto, alloggio e poco altro, essendo ormai da considerarsi come un bene di lusso tutto ciò che eccede il costo mensile per il sostentamento proprio e della propria famiglia.
E dunque, pur lavorando e dedicando gran parte della propria giornata ad un’attività faticosa, stressante, ripetitiva o noiosa, molti lavoratori devono rinunciare al teatro, ad una vacanza, al ristorante, al doppio paio di scarpe.
La retribuzione, poi, non è insensibile al sesso del lavoratore: se sei un uomo guadagnerai in media di più di una donna. Le disuguaglianze salariali segnano la vita lavorativa di uomini e donne, come l’Equal pay day ci ricorda ogni anno.
Poi c’è la precarietà del lavoro: contratti a tempo determinato, per periodi brevi o brevissimi, spesso non prorogati né convertiti in contratti a tempo indeterminato, costituiscono ormai la forma contrattuale più utilizzata, soprattutto in determinati settori e per assumere giovani.
Esistono precari nella scuola e in tutto il comparto pubblico così come precari nel settore privato.
Ciò che spesso non viene preso in considerazione è la vita da precario che sta dietro il contratto precario: vivere con l’ansia della scadenza contrattuale, con la preoccupazione di non trovare un nuovo lavoro o comunque di non trovarlo subito, di dover cambiare ufficio, colleghi e superiori ad ogni nuovo contratto, di vedersi respingere la domanda di mutuo in banca (proprio perché precario), di lavorare costantemente sotto la minaccia di un mancato rinnovo o con la falsa aspettativa di un contratto stabile.
Oggi, ormai non è soltanto il lavoro ad essere flessibile, anche il tempo di lavoro è diventato flessibile.
Oggi regnano incertezza, perenne innovazione, frenetico avvicendarsi di personale, massima propensione ai cambiamenti, continui e repentini.
La flessibilità si porta dietro nuove forme di potere e di controllo, crescita delle diseguaglianze, rabbia e insoddisfazione.
Mancanza di sicurezza e di certezza sul futuro, impossibilità di progettare la propria vita a lungo termine, continua migrazione da un’azienda all’altra, da una mansione all’altra, da un turno ad un altro, con la continua necessità di riadattarsi ad ambienti e contesti nuovi, determina spetto una vera e propria crisi di identità.
E l’uomo senza identità è un uomo pericoloso perché cade nel grigiore di quelli a cui va bene tutto, di quelli che rinnegano i propri valori e a cui non importa più nulla dell’altro. Proprio a questo rinnegamento di valori spingono i datori di lavoro pubblici e privati !I lavoratori divisi ed indifferenti non costituiscono più per loro una componente da prendere in considerazione a fini dei costi aziendali perché in assenza di unità non riescono più a rivendicare migliore salario e diritti nel mondo del lavoro.
Ma chi ha un contratto a tempo determinato è comunque più fortunato di tanti altri lavoratori, privi di tutele ed esposti maggiormente al rischio di non “riuscire a farcela”: collaboratori, partite iva, finti soci di finte cooperative, lavoratori in nero spesso non sono in grado di sopravvivere con il guadagno del loro lavoro, pur lavorando tanto, tantissimo.
In Italia abbiamo diversi lavoratori che subiscono un quotidiano sfruttamento da parte di chi, approfittando del loro stato di bisogno, corrisponde retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi e comunque dalla quantità e qualità del lavoro prestato, costringe i propri dipendenti a turni di lavoro massacranti, non concede loro ferie o periodi di riposo, li costringe ad accettare situazioni alloggiative degradanti.
Infine, si deve fare i conti con la scarsa sicurezza sul lavoro.
I morti non si contano più mentre gli Ispettorati del Lavoro sono a dir poco inefficienti.
Vite spezzate o ferite sul posto di lavoro, prevalentemente in piccole o medie aziende: schiacciate da presse o rulli, travolte da macchine agricole, folgorate da scariche elettriche, colpite e squarciate da pesanti oggetti caduti dall’alto, inghiottite da sabbia e terra, precipitate da impalcature, investite da pachere o muletti, accartocciate in macchine e furgoni.
Anche chi non muore, molto spesso resta vittima di ferite, menomazioni ed amputazioni, gravi o gravissime, che ne condizionano pesantemente l’esistenza, impedendo spesso ai malcapitati di riprendere l’attività lavorativa e comunque di continuare a svolgere le ordinarie attività sportive, di svago o del tempo libero praticate prima del tragico infortunio.
Anche questo è lavoro, lavoro con la elle minuscola.
Ma è solo il lavoro che può nobilitare l’uomo, che può dargli dignità e può dargli la forza di sperare in un futuro migliore.
Ed è proprio dal lavoro che la nostra società deve ripartire per tentare di superare questa crisi senza fine.
Il lavoro deve occupare le agende di chi ci amministra, nel tentativo sempre più impellente di introdurre forme stabili di occupazione sul modello tracciato dalla nostra Costituzione.
Ed è sul lavoro che va conquistata la fiducia e l’apprezzamento dei cittadini, i quali sono ormai stanchi di essere scavalcati nella scala delle priorità da questioncelle bagatellari, da problemi inesistenti e da spot privi di contenuto.
Dopotutto, domani sarà un altro giorno, domani si torna al lavoro!