In particolare, l’ ”assegno di inclusione” prevede meno risorse per le famiglie e una maggiore selezione dei beneficiari attraverso la ricerca attiva del lavoro. Inoltre, il governo vorrebbe introdurre una sorta di voucher per le assunzioni a tempo determinato, con l’obiettivo di agevolare le assunzioni di persone con un basso livello di istruzione e di competenze.
Eppure, è evidente come queste misure non siano sufficienti a risolvere i problemi di fondo del mercato del lavoro italiano: l’eccessiva precarietà, i salari bassi e l’incapacità di creare occupazione stabile.
Dal 2000, infatti, il salario medio italiano è stato tra i più bassi in Europa, con una crescita solo moderata rispetto agli anni ’90 e una diminuzione significativa rispetto ai paesi più avanzati.
Allo stesso modo, i diritti dei lavoratori sono stati erosi, proiettando l’Italia stabilmente in fondo alle classifiche europee sull’occupazione.
Le riforme del governo Meloni, quindi, non fanno altro che aggravare le malattie croniche del sistema, scaricando i costi su chi disperatamente insegue un lavoro che non c’è. La ricetta del governo, infatti, è quella di abbassare il costo del lavoro, riducendo i diritti dei lavoratori, senza tuttavia affrontare la vera causa della crisi: la mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo.
Una soluzione, in questo senso, potrebbe essere quella di creare una forma di welfare universale, in cui le imprese vengano incentivate a investire in ricerca e sviluppo, adottando misure per garantire l’accesso a un’istruzione di qualità e a un mercato del lavoro stabile. Solo in questo modo, infatti, si potranno creare le condizioni necessarie per rilanciare l’occupazione in Italia e garantire ai lavoratori diritti e salari più equi.
1973-2023: segnatevi queste date.
Cosa succede nel 1973?
Alla fine degli anni Sessanta comincia a scricchiolare lo Stato sociale. Nel 1971 Joan Robinson parla apertamente di Seconda Crisi della Teoria Economica. La prima c’era stata dopo il 1929, e aveva portato all’elaborazione della macroeconomia, la domanda guida era stata: Cosa fare della disoccupazione?
Nel 1971, quando ancora si respirava il clima della piena occupazione, quando ancora era possibile immaginare un futuro di speranza e miglioramento economico per la maggior parte della popolazione (classe media), la domanda, per Joan Robinson, era: A cosa serve l’occupazione?
Ci si poteva spingere in avanti, la regola poteva diventare da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni.
Nella società una moltitudine di segni testimoniavano che era in corso una spinta al passaggio a una seconda fase.
Un giovane economista, Giovanni Mazzetti, allievo di Federico Caffè, qualche anno dopo scrive che questi segni erano:
1) la perdita definitiva per i prezzi della loro connotazione sociale abituale. Nel corso degli anni Settanta, scrive, si presenta per la prima volta un fenomeno insolito. A una contrazione dell’attività produttiva protrattasi nel tempo, non si accompagna una diminuzione dei prezzi. Al contrario, questi continuano ad aumentare. Segno che il mercato è ormai esautorato del suo potere. Nel momento in cui la concorrenza sui prezzi è praticamente scomparsa, è scomparso anche quel meccanismo impersonale che permette di distinguere tra falsi aumenti dei costi e aumenti effettivamente dettati da vincoli produttivi necessari. Ognuno cerca di scaricare l’aumento sui prezzi finali di vendita. È un modo, scrive Mazzetti, di rifiutare di pagare un lavoro che non si sperimenta come necessario.
2) l’estensione generalizzata della condizione di lavoratore e la decostruzione dei nuclei sociali tradizionali ora subordinati al reddito potenziale (maternità, malattia, infortunio, sussidio di disoccupazione, borse studio, borse lavoro, lavoro socialmente utile, case popolari, sanità, trasporti pubblici, istruzione, sicurezza, naspi, RdC, ufficio di collocamento, etc – (tutto ciò che Cicalese chiama salario sociale di classe), si esprimono come diritto al lavoro, riconoscendo a un’entità terza ipostatizzata l’obbligo di creare lavoro oltre i limiti del lavoro necessario. Il salario sociale di classe altera il rapporto tra domanda e offerta di salario di mercato, altera il vincolo contabile del pareggio di bilancio.
Invece di prendere congedo dal mercato e avviarsi verso un diverso ordine contabile, anche gli economisti eterodossi – persino gli eretici – afferrano da un lembo questi segni di tracollo (prezzi manipolati, diritto al lavoro e al reddito) facendo scivolare il lavoro e i lavoratori in un angolino. Poiché tutti partecipano, anche quando si divertono o cercano informazioni in internet, tutti devono essere pagati (Basic income). A prevalere è la figura del salariato sociale o operaio sociale.
Poiché il prezzo può essere manipolato, in esso si esprime un potere, basta impossessarsi di questo potere (socializzazione degli investimenti) e tirare con forza la rete economica per raccogliere i frutti della pesca. Ma i pesci sono ancora i lavoratori, che rimangono sul fondo, insieme ai detriti e alla spazzatura del capitalismo. A prevalere è la figura del denaro come entità sovrana, sciolta da ogni passività e disseminazione. A prevalere è la fuffa monetarista e circolatoria, decisionista e idealista.
Il lavoro rimane sullo sfondo. Il lavoratore incassa sconfitte su sconfitte. Invece di una seconda teoria, si torna al rigore del capitalismo ottocentesco e alle forme più brutali di sfruttamento, e mentre i prezzi degli asset salgono e scendono senza incontrare alcuna resistenza, i prezzi delle case salgono e scendono in modo irragionevole, i prezzi delle macchine salgono e scendono in modo irragionevole e persino un economista paludato come Zingales deve ammettere che c’è qualcosa di marcio, il vincolo di bilancio viene scolpito nella pietra e imposto agli operai con la mano di ferro.