La prima pagina de Il sole 24 ore di ieri titolava: allarme competitività, produttività e innovazione giu’.
Premetto che a me sta bene tutto, purché è produzione. Ma mi dite che innovazione possono avere settori portanti dell’industria italiana quali arredo, alimentare, tessile, abbigliamento, calzature ecc.?
Sono settori che occupano una parte non indifferente degli occupati industriali. In questi settori puoi fare solo innovazione di processo, non di prodotti, perché i prodotti sono quelli, peraltro richiesti dal mercato mondiale. E per fare innovazione di processo devi mettere soldi sulla struttura della propria azienda, fare cioè gli investimenti.
Che non fanno da 50 anni, basandosi tutto su salari bassi. E dunque diminuendo, tramite consumi inferiori, la domanda interna. Puoi fare innovazione digitale, di macchinari ma sul prodotto puoi fare ben poco. Questi sono settori, a parte la mancata meccanizzazione dell’agricoltura, dove i proprietari hanno immensi patrimoni personali ma si basano tutto sull’apporto pubblico, di vari enti, da centrali a periferici, per fare qualche investimento.
Poi magari, come successo negli ultimi 40 anni, delocalizzi, ma poi ritorni perché nel frattempo i salari dei paesi dove sei andato sono cresciuti a livelli nostri. Ecco, si basano tutto su bassi salari.
Non abbiamo quasi piu’ industria automobilistica, siderurgica, chimica, qualcosa di elettronica, ma per il resto subfornitura, con l’eccezione della meccanica strumentale. Mi dite voi quale innovazione ci può essere? Si beano che stiamo arrivando a circa il 50% dei prodotti manifatturieri esportati all’estero, non capendo che è una tragedia alla fine, perché se gli altri paesi si fermano, come la Germania, tu coli a picco. Marcello de Cecco lo scrisse negli anni novanta: le produzioni italiane di questi settori dovevano andare nei paesi emergenti, non da noi, noi dovevamo tenerci l’industria pubblica innovativa e all’avanguardia. Cassandra inascoltata.
Evidentemente presso molti italiani, come vedo, c’è il mito del Made in Italy.
Evidentemente bestemmio. Ma mi chiedo: è possibile che i colossi del lusso francese nel 2023, ripeto 2023, scelgano il nostro Paese, magari trasferendosi dall’Asia per la produzione di pelletteria, calzature e abbigliamento? C’è qualcosa che non va in tutto ciò. Per vari motivi: i guadagni sono tutti delle multinazionali e dei loro proprietari come Arnault.
Evidentemente in Toscana, dopo secoli, si sta assistendo alla fine della produzione artigianale di eccellenza per mettere questi lavoratori in complessi industriali.
E’ un bene? Io non credo. Poi, se si spostano dall’Asia in Italia è per i salari, ormai, al netto del costo della vita, i nostri sono piu’ bassi di loro e in piu’ c’è la vicinanza e le capacità delle maestranze.
Poi non lamentiamoci dei bassi salari, perché è questo modello produttivo che li porta. Se ci fossero più aerospaziale, chimica fine, siderurgia, produzione automobilistica, elettronica, telecomunicazioni, farmaceutica che, a differenza di adesso, non sarebbe contoterzista ma primaria attrice nel mercato mondiale, non avremmo bassi salari, perché sono modelli basati ad alta intensità di ricerca e produttività. Li abbiamo abituati troppo bene questi presunti padroni in nome del Made in Italy, una volta erano produzione di nicchia, ora primeggiano perché per il resto c’è il deserto. Per quanto riguarda lo stesso turismo, esso è ad alta intensità di lavoro e bassa produttività, dove a guadagnarci sono pochi e anche questo modello si basa su bassi salari. Anche la Grecia ha il turismo, ma sfido qualcuno ad affermare che industrialmente sia un paese evoluto.
Confindustria, sin dal dopoguerra, voleva la fine dell’industria pubblica perché concorreva con essa dando salari dignitosi rispetto a loro Ci sono voluti Carli, Ciampi, Draghi, Amato, Prodi, d’Alema per accontentarli. Ed è stata la nostra fine. Siamo in declino da decenni, quest’anno forse cresciamo dell’1.2%, ma che ce ne facciamo con un debito pubblico spaventoso, con servizi scadenti, con consumi a picco, con produttività totale dei fattori produttivi a zero da decenni? E non si fa niente pur avendo una posizione finanziaria netta estera positiva per 105 miliardi, perché dobbiamo obbedire a Usa, Ue e Nato.
Proprio ieri lo avevo scritto e solo adesso mi accorgo che l’editorialista Paolo Bricco de Il sole 24 ore, l’unico che leggo di quel giornale, ha dedicato un pezzo dal titolo “L’Italia non può vivere solo di turismo”. Traccia un quadro allarmante dell’industria italiana, anche quella della meccanica strumentale, un tempo il nostro vanto, che ora è incapace di intercettare la domanda internazionale, a differenza di prima. Ieri scrivevo che senza cognizione di causa nell’economia, dai vertici dello Stato ai quadri ministeriali, un Paese non può andare avanti. Ecco, lo scrive lo stesso Bricco in un passo che cito:”
Quando si vuol fare qualcosa non si scorge una tecnocrazia pubblica di valore. Senza arrivare ad Alberto Beneduce e a Oscar Sinigaglia o a Fabiano Fabiani e Franco Reviglio”.
Ecco, gente colta, capace. Oggi ho letto un post di una persona mia amica su fb che non ricordo il nome, ma che diceva il giusto: un paese senza acciaio cessa di esistere. Per quanto riguarda la burocrazia di valore, essa ha a che fare con due fattori storici della Seconda Repubblica: le riforme Bassanini, che hanno distrutto la capacità di analisi e di azione del corpo burocratico, mettendo spesso gente poco colta, ma soprattutto la campagna d’odio di Brunetta nel 2009 quando disse che i pubblici erano tutti fannulloni. Ecco, un paese è forte quando ha una burocrazia colta, di valore, tutelata, ben retribuita e al servizio del paese e non di cordate partitocratiche o di gruppi di interessi privati, o commistioni da i due campi. Ecco, hanno distrutto lo Stato. E ne paghiamo tutti le conseguenze.