Il sindacato che non c’è più perchè non ci sono più …

È vero, non c’è più un sindacato che difende i lavoratori dipendenti, si è dissolto nel brodo del compromesso conformista. Ma ciò non significa che non ci sia bisogno di uno o più sindacati che difendano veramente gli interessi dei lavoratori dipendenti siano essi privati e/o pubblici senza giochini ipocriti e farse con il potere statale e con i datori di lavoro.

Io sono un sindacalista che crede nella riscossa dei lavoratori e mi tocca pertanto il compito disperato, di provare a guidare un vero sindacato, che non significa sia esso antimeloniano o antifascista e, in fondo, neppure antiliberista: un sindacato che si limiti a essere «anti-qualcosa» non è sindacato, ma una banale emanazione dell’impero delle multinazionali, all’interno del quale esiste un solo valore, il successo materiale e individuale, un valore che si può ancora rifiutare (diventando però consapevolmente irrilevanti) o dal quale, più probabilmente, ci si può far condurre alla disperazione o alla rassegnazione, gettando la spugna.

Sì, lo scoraggiamento è comprensibile, peraltro indotto dalla macchina propagandistica più potente e invasiva della Storia (tutti gli schermi o schermini dei quali vi servite ne fanno parte). Però un ribellismo ingenuo, educato o isterico, verbale o violento che sia, non è una soluzione; al contrario, rafforza il potere: e non perché ne legittimi le strutture repressive, come accadeva una volta, ma perché lo aiuta a frammentare la società, a completarne la deregolamentazione, a cancellare le istituzioni, le culture e le tradizioni che per qualche migliaio di anni hanno bene o male (spesso, male) arginato la barbarie dell’individualismo.

Non è ancora tempo per un vero sindacato partecipato dai lavoratori: prima occorre ricostruire la «polis», dunque delle aggregazioni sociali che si riconoscano in autonome gerarchie di valori condivisi. Condivisi. Non «universali» come pretendono gli statalisti per sfuggire alla responsabilità e fatica del bene comune, che sempre comporta rinunce, sacrifici personali; così, sfuggendo alle responsabilità, più è facile chiamare destino o necessità ciò che conviene ai potenti e si possa ottenere sùbito, e chissenefrega dei posteri.

Di questo vorrei discutere, dell’ambiente dei cosiddetti «social», che si è dimostrato, dopo le illusioni di qualche anno fa, del tutto omogeneo al sistema di potere padronale, se non sua diretta emanazione. D’altra parte i mezzi, a differenza dei fini, non li si può inventare: ci si deve accontentare di ciò che è disponibile. Anche facebook. Purché non ci si adegui al suo formato, alla sua programmatica superficialità, alla sua ossessione per l’immediata attualità e per ciò che è di moda e in quanto tale non giudicabile. Come dicevo, penso che sia tempo di tornare a parlare di valori, di principii, di obbiettivi, di strategia, di sacrificio personale.
Senza, per questo, alcuna speranza di ottenere risultati in tempi brevi: in quanto consapevoli delle enormi difficoltà che ci troveremo ad affrontare ma anche perché immuni dal vizio individualista e superficiale della fretta: fretta che ti fotte la vita se non metti in gioco il tuo sacrificio ed i tuoi valori più semplici e più forti non vivendo come amebe.

 

 

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